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Anna Nastri, Responsabile sviluppo progetti e business S.S. Lazio: “Altro che cravatta o tacco dodici. Nel lavoro, come nella vita, è la testa che fa la differenza”

Da Publitalia ’80 alla Rai, fino ad approdare nel settore a più forte connotazione maschile esistente in Italia: il mondo del calcio. Di Serie A, per giunta. Dal 2020 Anna Nastri lavora con il presidente della S.S.Lazio e senatore Claudio Lotito.
Sulla carta è responsabile Sviluppo progetti e business per il club biancoceleste. Nei fatti, il suo è un ruolo ben più complesso, trasversale e privo di confini precisi. Anna collabora a diversi livelli e in più dipartimenti della società e grazie al carisma, all’esperienza e alle grandi capacità comunicative, riesce a dare il suo contributo negli ambiti più disparati.

Alle barricate uomo VS donna Anna non ci sta. In quasi 40 anni di carriera si è sempre considerata una persona – non una donna – che lavora, in tutto e per tutto al pari di un uomo, poco importa se con cravatta o tacco dodici. Perché come dice lei, non è il tacco o la cravatta, ma la testa, a fare la differenza.

  • Lei ha un ruolo di grande rilievo all’interno di uno dei maggiori club della Serie A di calcio. Che significa per Lei ricoprirlo, anche in quanto donna?

Devo dire che nel lavoro io non mi definisco donna, ma persona. Una persona che esprime la propria professionalità, cosa che farei anche se fossi uomo. Ho avuto la fortuna di lavorare in realtà che non hanno fatto distinzioni di genere ma che hanno valutato piuttosto le capacità, le predisposizioni e le conoscenze. Le persone che ho incontrato durante il mio percorso professionale non hanno mai posto davanti alla scelta di un collaboratore la discriminante di genere, hanno sempre valutato le capacità. E questo dovrebbe valere a prescindere dal contesto e dal ruolo.

  • Perché secondo Lei il mondo calcio continua ad essere così fortemente connotato al maschile? La presenza di donne ai vertici delle istituzioni sportive potrebbe favorire una inversione di tendenza?

È indubbio che il mondo del calcio sia ancora fortemente connotato al maschile, se escludiamo alcuni specifici comparti come il marketing, il giornalismo e i settori giovanili. L’inversione di tendenza non richiede una qualche azione specifica, a mio avviso. Piuttosto c’è bisogno di maggiore consapevolezza delle proprie capacità e della giusta determinazione per scegliere l’ambiente e il ruolo in cui si può esprimere al meglio la propria passione, la voglia di fare, l’entusiasmo. Credo che tutto, o quasi, sia nelle mani di chi si propone, piuttosto che in quelle di chi offre lavoro. Io sono una persona che lavora, e nella vita sono anche una donna, madre, eccetera, e mi fermo qui per non ribadire dichiarazioni fatte da altri – sorride, ndr – ma resto una lavoratrice, indipendentemente dal fatto che indossi o meno un tacco dodici o una gonna. Svolgo l’attività per la quale sono stata scelta e per la quale percepisco uno stipendio, e che prima di tutto svolgo per (e con) passione. Ritengo che nella vita chi fa la differenza è l’essere umano, niente altro. Bisogna andare avanti e superare le etichette uomo/donna, bisogna scegliere e valutare le persone in base alle loro capacità, molto semplicemente.

  • Come è stata la sua esperienza di “donna” nel mondo calcio e quale è stata la più grande soddisfazione che ha raccolto?

La soddisfazione più grande che ho raccolto è quella di aver trovato un presidente che ha riconosciuto in me delle caratteristiche e che mi ha proposto di entrare in un mondo che mi appassiona moltissimo.
In seconda analisi, l’essere riuscita a relazionarmi bene con tutti, a collaborare nella maniera più costruttiva e rispettosa, è per me fonte di immensa soddisfazione, ed è poi ciò che si richiede al mio ruolo all’interno di questa realtà: una massima flessibilità e disponibilità a spaziare tra le diverse funzioni per contribuire alla crescita del club da vari fronti, senza una definizione specifica e riduttiva delle mie mansioni e della mia qualifica. Ed effettivamente, sul mio biglietto da visita c’è solo nome e cognome…

  • Ti è capitato in passato di subire o assistere a episodi discriminatori verso te in quanto donna, o verso altre donne in quanto tali?

Fenomeni di questo tipo sono purtroppo figli di una cultura retrograda e di non rispetto verso l’altro, uomo o donna che sia. Personalmente, in 38 anni di lavoro, non mi è capitato di vivere situazioni di difficoltà o che mi hanno fatto sentire discriminata. Quello a cui invece ho assistito spesso è la mancanza di rispetto in genere. Ecco ciò che noto oggi, rispetto al passato: una generale mancanza di rispetto per la dignità delle persone, a livello umano piuttosto che di genere. Tornando alla domanda, personalmente quando lavoro mi sento al pari di un mio collega, che sia uomo, donna, capo del mondo non fa differenza, quando si tratta di lavoro, chi ho di fronte si sveste della connotazione maschile, è semplicemente una persona, un essere umano. Tacco dodici o giacca e cravatta – quest’ultima tra l’altro, piace metterla anche a me talvolta – non fa differenza.

  • Sta dicendo che a volte siamo noi donne le prime, diciamo, ad auto-discriminarci?

Penso che non bisogna farsi condizionare. La mattina usciamo tutti di casa, uomini e donne, per andare a lavorare. Spesso le donne hanno da fare qualcosina in più, ma oggi come oggi i figli spesso sono cresciuti dai papà, non solo dalle mamme. Credo davvero che oggi non serva più a nulla mettersi sulle barricate, questioni come queste rappresentano un argomento superato, soprattutto se lo si continua a trattare come un tema legato alla discriminazione. Ripeto, la discriminante sta nel cervello delle persone, non nel genere. Oggi più che battaglie servirebbero fatti, fatti concreti. Con le battaglie si rischia di discriminare ancora di più.

  • Si sente dire spesso che la natura troppo “emotiva” delle donne impedisce loro di reggere lo stress che una carriera ai vertici talvolta comporta… Guardando ai traguardi da lei raggiunti, cosa risponderebbe?

Lavoro da 38 anni, ho fatto di tutto, ho macinato chilometri e chilometri, ogni giorno. Mi rendo conto spesso che ho più batteria io di tanti uomini che conosco, proprio perché, come dicevo, è la testa che fa la differenza. Io lavoro 15-16 ore al giorno, partecipo a riunioni in cui molto spesso sono l’unica donna presente, ci sono colleghe che lavorano con gli stessi miei ritmi e la stessa dose di stress, e dicono che non siamo in grado di sopportarlo? Posso soltanto commentare che si tratta di affermazioni legate anch’esse a un limite culturale della persona da cui arrivano. Non credo esista al mondo una donna che non sia in grado di reggere lo stress perché è donna. Anzi, quanto a emotività, penso che le donne siano nettamente più forti, e spesso affrontano e sopportano situazioni molto più stressanti. L’unica differenza forse la fa il tempo che abbiamo a disposizione: le donne, fin quando i figli sono piccoli forse hanno qualche impegno in più da “incastrare” nel piano di attività giornaliero. Ma personalmente, ho un figlio che ho cresciuto lavorando a 700 km da dove vivevamo, e tutti i venerdì sera ero a casa con lui. Credo di aver cresciuto un figlio che ha capito, che oggi ha un suo lavoro e che non ha riscontrato problemi dati dal modo in cui è stato allevato.

  • Ci racconta un aneddoto divertente che l’ha vista protagonista (e magari l’ha vista spuntarla in un dibattito in cui era l’unica donna presente)?

Ricordo che, molto tempo fa, quando ero agli inizi, mi sono ritrovata a partecipare ad alcune riunioni in cui qualcuno – uomo, ovviamente – vedendomi seduta, mi ha dato le spalle, come a dire “tanto lei è qui per ascoltare”. Non ho fatto grandi cose, gli ho cortesemente chiesto di girarsi, perché avevo ammirato abbastanza la sua schiena e avrei voluto vedere il suo viso quando parlava, per guardarlo negli occhi e capire se quello che diceva aveva un senso e se avessi potuto anche dare un mio parere in merito. Ho risposto così, e da quel momento in poi credo di aver ricevuto il massimo rispetto da tutte e 15 le persone sedute a quel tavolo.
Tengo a ribadire, come essere femminile, che credo sia giunto il momento di scendere dalla barricata e andare avanti, lavorare, credere in ciò che si fa, con passione e determinazione e pretendendo sempre rispetto. Poche cose ma importanti, per risolvere un problema che deve essere risolto, anche perché le donne possono dare un grande contributo. Abbiamo delle composizioni genetiche diverse, è innegabile che le donne siano in grado, per natura, di dare un importante valore aggiunto. Quindi, per riassumere: passione, rispetto e determinazione, senza rinunciare – perché mai? – alla propria femminilità. Quindi se si ha voglia di andare al lavoro in tacco 12, ben venga, facciamolo! Così, forse, il resto del mondo finalmente si abitua.





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