Skip to main content

Lidia Poët

Storia della prima donna abilitata alla professione forense in Italia

di Elisabetta Gregni

Lidia Poët nasce nel 1855, ed è stata una delle prime donne a laurearsi in Italia in Giurisprudenza, più precisamente nel 1881, all’Università di Torino, discutendo la tesi “Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezione”. Ha dovuto difendere con una straordinaria determinazione il suo diritto a esercitare la professione di Avvocato.

Dopo lo svolgimento del praticantato e il superamento dell’esame di abilitazione alla professione forense, Lidia chiede l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino. Richiesta che viene osteggiata dagli avvocati Desiderato Chiaves, ex ministro dell’Interno e Federico Spantigati, al punto da portare entrambi alle dimissioni per protesta dall’Ordine stesso, dopo che l’istanza venne messa ai voti e accolta.

Favorevoli invece all’iscrizione, il Presidente Saverio Francesco Vegezzi e altri quattro Consiglieri i quali precisarono che “a norma delle leggi civili italiane le donne sono cittadini come gli uomini.” A questo link si riporta un estratto della tesi e la pubblicazione di un libro

Fu così che, nel 1883, Lidia Poët divenne la prima donna ammessa all’esercizio dell’avvocatura.
Ma gli ostacoli non erano ancora finiti. Il Procuratore Generale del Regno mise in dubbio la legittimità dell’iscrizione e impugnò la decisione ricorrendo alla Corte d’Appello di Torino che, in accoglimento della richiesta del Procuratore, ne ordinò la cancellazione dall’albo. Il 28 novembre 1883 Lidia presentò ricorso alla Corte di Cassazione che, con sentenza del 18 aprile 1884, confermò la decisione della Corte d’Appello.

Qui di seguito si riporta qualche passaggio “interessante” estratto dalla sentenza:

“La donna non può esercitare l’avvocatura perché la professione forense è da qualificarsi come un ufficio pubblico” l’ammissione delle donne agli uffici pubblici all’epoca doveva essere esplicitamente prevista dalla legge (cosa che avvenne nel 1963).
Nella decisione si ritrovano anche considerazioni di carattere lessicale: la legge unitaria sull’avvocatura dell’8 giugno 1874 n. 1938 era da intendersi solo per il genere maschile utilizzando il termine avvocato e mai quello di avvocata o di avvocatessa. Ancora, si legge “nella razza umana, esistono diversità e disuguaglianze naturali e dunque non si può chiedere al legislatore di rimuovere anche le differenze naturali insite nel genere umano”.

La sentenza quindi conteneva argomentazioni tutt’altro che giuridiche e frutto di stereotipi di genere: le donne non potevano essere avvocato perché era inopportuno che convergessero “nello strepitio dei pubblici giudizi” magari discutendo di argomenti imbarazzanti per “fanciulle oneste” , o che indossassero la toga sui loro abiti, ritenuti tipicamente “strani e bizzarri” o perché avrebbero potuto indurre i giudici a favorire una “avvocatessa leggiadra”. Una esclusione giustificata inoltre per la “naturale riservatezza del sesso, la sua indole, la destinazione, la fisica cagionevolezza e in generale la deficienza in esse di adeguate forze intellettuali e morali, quali la fermezza, la severità, la costanza che avrebbero impedito alle donne di occuparsi di “affari pubblici”.

“La presenza di una donna al banco della difesa avrebbe compromesso «la serietà dei giudizi e gettato discredito sulla magistratura stessa» perché, se l’avvocata avesse vinto la causa, le malelingue avrebbero potuto malignare che la vittoria sarebbe stata dovuta «alla leggiadria dell’avvocatessa più che alla sua bravura».
Per i 37 anni successivi alla sua imposta cancellazione dall’albo, Lidia Poët non interruppe mai l’esercizio concreto della professione, specializzandosi nella tutela diritti dei minori, degli emarginati e delle donne, sostenendo anche la causa del suffragio femminile.

La perseveranza che l’aveva spinta a combattere per rimanere iscritta all’albo forense, anche a costo di dare scandalo nel suo stesso foro, ottenne ragione giuridica.

Nel luglio 1919, infatti, il Parlamento approvò la legge Sacchi, che autorizzava ufficialmente le donne ad entrare nei pubblici uffici, ad esclusione della magistratura (questo avverrà nel 1965), della politica (Nilde Iotti nel 1979) e dei ruoli militari (nel 1999 con la legge numero 380 l’Italia si allineava ai Paesi della NATO aprendo le Forze armate al reclutamento femminile).

Così, nel 1920, Lidia Poët poté finalmente ripresentare – con immediato accoglimento – la richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati. All’età di 65 anni, tornò ad indossare la toga che le era stata tolta. Lidia morì a 94 anni, nel 1949, e se ne andò non senza esercitare il proprio diritto di voto alle prime elezioni a suffragio universale in Italia, nel 1946: fu dunque testimone della definitiva vittoria di quel principio di uguaglianza – almeno in diritto – per il quale si era battuta tutta la vita, da avvocato ma soprattutto da donna.

Sul suffragio femminile: le donne italiane votano per la prima volta il 2 e 3 giugno del 1946, in occasione del referendum che doveva decidere tra Monarchia e Repubblica. Solo alcune sono chiamate alle urne qualche mese prima, per le amministrative comunali e per la prima volta nella storia vengono anche elette due donne sindaco: Ada Natali (a Massa Fermana) e Ninetta Bartoli (a Borutta). La mattina del 2 giugno il Corriere della Sera titola: “Senza rossetto nella cabina elettorale” con il quale invita le donne a presentarsi presso il seggio senza rossetto alle labbra. La motivazione? “Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio”.

Qui il link ai due articoli:

La caparbietà e la determinazione di Lidia Poet, la prima donna avvocata di Ivana Enrica Pipponzi
Lidia Poët, storia della prima donna avvocato in Italia. Una storia ricca di passione, coraggio e determinazione. (a cura dell’avv. Alice Di Lallo)

Uno sguardo veloce anche alle donne in Magistratura

Maria Gabriella Luccioli, nata nel 1940, è una tra le prime otto donne che indossarono la toga nel 1965 dopo che, il 9 febbraio del 1963, il Parlamento approvò la legge che stabiliva la parità tra i sessi negli uffici pubblici e nelle professioni.

Da allora sono passati sessant’anni, le donne in magistratura hanno superato nei numeri gli uomini, ma c’è ancora molta strada fare: ad esempio, sono ancora poche le donne chiamate a ruoli direttivi.
Le donne, pur essendo infatti la maggioranza in magistratura (54%), hanno incarichi direttivi solo in un caso su quattro (e a capo delle procure solo il 14%).
Anche qui, Maria Gabriella Luccioli è stata la Prima Presidente Titolare di sezione della Cassazione fino al maggio 2016.

Nel 2014 Marta Cartabia diventa la prima donna Vicepresidente della Corte Costituzionale e nel 2019 è la prima Presidente della Corte stessa.

Nel 2020, Francesca Nanni è la prima donna alla guida della Procura Generale di Milano. In precedenza, era stata la prima donna procuratore capo a Cuneo, e prima donna Procuratore Generale a Cagliari.