di Elisabetta Gregni
Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La ricorrenza è stata istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. L’Assemblea ONU ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG ad organizzare, in quel giorno, attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza contro le donne.
Inoltre, la data del 25 novembre designa l’inizio dei “16 giorni di attivismo contro la violenza di genere” che precedono la Giornata mondiale dei diritti umani, il 10 dicembre di ogni anno, promossa nel 1991 dal Center for Women’s Global Leadership (CWGL) e sostenuta dalle Nazioni Unite, per sottolineare che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani.
Solo a partire dagli anni Duemila, tutte le varie iniziative promosse dall’Unione Europea in seno ai programmi di azione per le pari opportunità prevedono progetti volti a combattere questi specifici casi di violenza, che vengono finalmente considerati non solo – in modo neutro, come violenza domestica – ma come violenza di genere.
Nel 2009 entra in vigore il Trattato di Lisbona, in cui la parità tra uomo e donna viene riconosciuta tra i valori fondanti e posta tra i principali obiettivi dell’Unione Europea. Viene resa giuridicamente vincolante la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea che stabilisce il rispetto della dignità umana, la proibizione di trattamenti inumani o degradanti, il divieto di discriminazione sulla base del sesso; oltre che l’obbligo di assumere la parità tra uomo e donna.
Nella Convenzione di Istanbul del 2011 leggiamo “L’espressione violenza contro le donne basata sul genere designa qualsiasi violenza contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato”. Vuol significare quindi “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere, che provocano o sono suscettibili di provocare danni e sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti”.
Queste dichiarazioni rappresentano dei traguardi politici importanti. I modi e le circostanze in cui la violenza e l’uccisione delle donne vengono perpetrati hanno dimostrato infatti come la generica definizione di omicidio non solo si rivelava inadeguata, ma rischiava di nascondere o trascurare la vera natura del problema. Si è giunti così alla definizione del termine “femminicidio”.
L’antropologa e sociologa americana Marcela Lagarde impone il termine “femminicidio” sulla scena politica, designando compiutamente il complesso di pratiche sociali, sia private che pubbliche, agite ai danni delle donne. Nel 1997 la Lagarde parla di femminicidio, richiamando l’attenzione internazionale sulla grave questione di Ciudad Juàrez (Messico), dove, a partire dal 1993, vennero alla luce i casi di centinaia di donne e di ragazze, prima sfruttate in modo disumano negli stabilimenti industriali, poi barbaramente uccise. Lagarde descrive il femminicidio “come la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dello Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa, e a rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”.
Alla base di questa forma di violenza c’è una cultura di stampo maschilista e patriarcale che, ancora oggi, per molti aspetti, assegna all’uomo una posizione di assoluto predominio sulla donna. La dipendenza economica, la mancanza di altre aspirazioni all’infuori di quelle che gli prospettano il ruolo di moglie e di madre, un’educazione che le vuole fragili e indifese, sono tutti passaggi che conducono molte donne alla rinuncia dei propri spazi di autonomia, riducendole a essere dipendenti in tutto e per tutto dall’uomo. Tutto ciò crea l’habitat ideale all’insorgere di frustrazioni, tanto nell’uomo quanto nella donna: entrambi sono vittime di modelli precostituiti.
In molti paesi, come l’Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e uno degli oggetti simbolo è rappresentato da scarpe rosse da donna, allineate nelle piazze o in luoghi pubblici, a rappresentare le vittime di violenza e femminicidio. Nel 2009 l’artista messicana Elina Chauvet, ha realizzato la prima installazione Zapatos Rojos, in una piazza di Ciudad Juarez, ispirandosi all’omicidio di sua sorella per mano del marito. L’installazione è stata replicata successivamente in moltissimi paesi del mondo, fra cui Argentina, Spagna, Italia, Stati Uniti.
Qui è possibile leggere un approfondimento su Zapatos Rojos
Qui un articolo dedicato alla storia delle ‘farfalle’ Mirabal
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